Ci sono esperienze che rimangono impresse e lo resteranno per sempre. Quali sono? Indubbiamente, quelle in cui si sono vissute emozioni forti.
Una delle esperienze più segnanti che possano capitare è sicuramente quella in cui si arriva a mettere in discussione la possibilità di vedere una nuova alba. Quello che ho vissuto ad Andorra è stato proprio questo. C'è da mettere in conto che l'idea dell'avventura, evidentemente, mi piace ma, allo stesso tempo, non sono un dipendente dall'adrenalina, uno di quelli che va a cercare, di proposito, le situazioni più complicate possibili in cui cacciarsi.
Il piacere per l'avventura, però, crea un'apertura e fa sì che essa, anche se non palesemente ricercata, trovi te.

Come è iniziata
Io e Loretta, la mia compagna, anche lei con una spiccata apertura verso l'avventura, siamo in Andorra. Parcheggiamo la macchina laddove ha inizio il percorso da trekking di Coma Pedrosa. Piace camminare ad entrambi ed entrambi amiamo immergerci nella natura (in questo articolo ti racconto di come siamo finiti a stare nudi sulla neve di questa montagna!). Tuttavia, non siamo proprio quelli che si definirebbero “particolarmente accorti” e questo fa sì che non ci poniamo il problema di avere attrezzatura adeguata, a parte le nostre mise da trekking. Diciamo che, più che altro, abbiamo dato per scontate alcune cose...
All'inizio del percorso, incontriamo una coppia che, da ciò che recano con loro, ci danno la chiara impressione di essere molto più preparati di noi. Entrambi indossano l'abbigliamento più indicato ed impugnano, in entrambe le mani, bastoncini da trekking che fanno affondare nel terreno, ad ogni passo, per trovare maggiore stabilità. Bolliamo superficialmente la cosa come “fanatismo” e proseguiamo nella direzione opposta alla loro.
Il richiamo dell'avventura
Il cammino si presenta subito ripido ma, almeno nella sua primissima parte, molto semplice. Il paesaggio regala scorci pazzeschi sulle cime che ci sovrastano e su quelle lontane, su ruscelli e piccole cascate, su distese di alberi e la neve dei punti più in alto. Un'oretta e mezza dopo l'inizio del trekking, incrociamo nuovamente la coppia attrezzata dell'inizio. Stanno tornando al punto di partenza dopo la fine di un piccolo loop. Pare che, alla fine, per quanto fossero organizzati, la loro non fosse altro che una piccola scampagnata. Noi, invece, andiamo avanti, scattiamo foto e ci guardiamo intorno con l'esaltazione dei bambini, davanti al loro parco giochi preferito. Ma, come in ogni luna park che si rispetti, c'è quell'attrazione, quella giostra che la guardi e ti chiedi come prenderai i suoi movimenti. Per noi, l'ingresso a quella giostra è un piccolo ponte che attraversa un ruscello che, un paio di metri più in là forma una bella cascata. Già in questo punto, l'entrata, ci sono segnali che presagiscono a cosa ci aspetta più avanti. L'accesso ad entrambe le estremità del ponte è reso difficile dalla presenza di un alto cumulo di neve che ci costringe al salto in basso per accedervi ed allo scalone in alto per uscire e procedere. Probabilmente, qui, ci potremmo soffermare a pensare un attimo di più ma, guardando un po' più in là, non pare che ci sia chissà cosa da temere. D'altronde, i simboli che segnalano il percorso del trekking posti sugli alberi e sulle rocce sono ancora ben visibili e l'idea di rispettare il percorso ci tranquillizza. Allo stesso tempo, sul pavimento che, oramai, era solo neve, si individuavano le impronte di qualcuno che, prima di noi, aveva calpestato il sentiero.

Le prime difficoltà
In realtà, non passa molto tempo prima che la neve sotto i nostri piedi (che, ricordiamo, sono coperti da semplici calzature con semplici suole) diventi più compatta, più simile al ghiaccio, più dura e, pertanto, più scivolosa e difficile da penetrare con i nostri passi. Ma, ancora, non percepiamo nulla da temere se non la possibilità di finire con il culo per terra, cosa che, tra l'altro, non accade. Il nostro cammino, sebbene diventi sempre più ripido e poco stabile a causa della dura neve, è, comunque, reso più sicuro dagli alberi che, sul crinale accanto a noi, ci infondono la tranquillità del “se scivolo giù, non dovrei aver difficoltà a trovare un appiglio”. Ma questa sicurezza, ad un punto, viene meno. Per una distanza di circa tre metri, con il sentiero ripido (lateralmente), stretto e scivoloso, il crinale del monte (ormai, siamo ad un'altitudine importante) non presenta alcun appiglio, alcun albero, alcuna radice o filo d'erba ma solo ed esclusivamente la ripida discesa innevata che porta allo sfracellamento. Loretta mi fa notare che è il caso di mettere camera e goPro nello zaino, per stare più comodo e perché la situazione non mi permetterebbe comunque di fare il Francis Ford Coppola. Ma perché stiamo continuando? A fregarci, forse, c'è quel pensiero che tre metri di attenzione e cautela non possano compromettere la riuscita di un lungo trekking e, ancora, più avanti, gli alberi tornano a rassicurare il cammino. Piantiamo mani e piedi, per quanto possibile, nella neve e superiamo il tratto adrenalinico.

Ostinazione
In realtà, l'unica cosa che otteniamo è un precedente. La stessa situazione, peggiorata in lunghezza, altitudine, ripidità, instabilità della neve e mancanza di appigli si ripresenta ancora ed ancora. Perché continuiamo, ancora? Le ragioni sono tante, alcune stupide ed altre più sensate (ma, comunque, stupide). Tra le più stupide c'è, sicuramente, l'orgoglio, quel brutto pensiero di arrendersi che si vuol scacciare via, quell'ombra del fallimento che fa paura al tuo ego quanto non è ancora arrivata a farti paura l'impervia montagna. Poi, ancora, quel fastidio dell'aver lasciato qualcosa di incompiuto. Nelle nostre vite, dettate da ritmi che solo in parte dipendono da noi, ci ritroviamo costretti a mettere da parte sogni, ambizioni e desideri, lasciando i percorsi alla loro ricerca, per l'appunto, incompiuti. L'azione di un giorno, come il nostro trekking, diventa, quindi, quel qualcosa di piccolo ma importante da portare a termine, forse per mantenere quell'illusione di avere quel potere di chiudere un cerchio, di vedere la propria determinazione superiore a qualunque avversità. La ragione più sensata che ci spinge a continuare, però, è , probabilmente, la paura di riaffrontare, in discesa (molto più temibile), quanto abbiamo affrontato sinora, unita alla speranza di un tragitto che diventerà più semplice.

Epilogo
La speranza sarà anche l'ultima a morire ma, alla fine, muore. La nostra speranza muore quando dopo un'ultima, azzardatissima, traversata senza appigli in cui trovo anche il tempo di guardare giù ed immaginarmi cadere per troppo a lungo per non sfracellarmi dopo essermi cagato addosso, ci ritroviamo davanti ad un brusco cambiamento del percorso. Se, sinora, abbiamo patito l'inclinazione della montagna in senso principalmente laterale, a causa di un percorso fatto a tornanti, ora il sentiero sale dritto su, senza tornanti, più ripido che mai. Giù, nulla a poter bloccare la nostra eventuale caduta. Sotto i nostri piedi e le nostre mani, la neve più dura che mai. Ci pensiamo addirittura su, sempre per le stesse motivazioni di cui sopra ma, ad un certo punto, la ragione prende il sopravvento. Loretta racconta di un battito di cuore mancato, una voce nella coscienza che, dopo averle concesso l'adrenalina sino ad allora, le sussurra “fermati, questo è il momento”. Mi guarda e mi dice “torniamo indietro”. Mi sento sollevato perché so di non dover affrontare la salita che vedo davanti ai miei occhi. Mi sento sollevato perché quelle parole, quel “torniamo indietro”, non sono uscite dalla mia bocca da stupido, più che da orgoglioso. L'idea stessa che, in una situazione del genere, stia pensando all'orgoglio mi dà fastidio perché non posso non ammettere a me stesso che, comunque, anche se non letteralmente, mi sto davvero cagando sotto. Per l'appunto, oltre che sollevato, sono estremamente preoccupato. Quella speranza di un percorso più comodo viene meno definitivamente e viene sostituita dalla tremenda certezza che affronteremo ciò che avevamo già affrontato, con l'aggravante della discesa. Ma è stato lì che son diventato la punta delle mie dita, è lì che sono diventato il mio ginocchio, il mio tallone e, a momenti, il mio culo. Cercando quel minimo di stabilità che ci permettesse la discesa, penetriamo la neve con le nude mani, facciamo peso su un ginocchio o sul nostro tallone per imprimere una minima fossetta. Mi rendo conto di “non essere”, mi rendo conto che il mio istinto di sopravvivenza si è messo alla guida e che il mio corpo si muove in automatismi come un sistema che va in auto-protezione. La mia coscienza, la mia energia, è concentrata solo ed esclusivamente sui punti di contatto con la neve. Il freddo, tra le dita, è un dettaglio di cui a malapena mi accorgo.
A fine discesa, ci ritroviamo al comando dei nostri corpi, con la terra nuovamente sotto i piedi e con quel pensiero cinico di quanto sarebbe assurdo e comico, allo stesso tempo, scivolare sulla più banale delle pietruzze, battere la testa e lasciarci le penne.